Intervento in Siria. La nuova Guerra fredda si gioca sulla via di Damasco

set 18, 2015 0 comments

Di Michela Mercuri

È notizia di pochi giorni fa, l'annuncio del ministro della Difesa francese- Jean-Yves Le Drian - che i raid aerei contro le postazioni dell'Isis in Siria inizieranno "nelle prossime settimane". La presa di posizione francese segue solo di pochi giorni l'invio russo di armi e uomini al governo damasceno.
Qualcosa si muove dunque nel fronte siriano, dimenticato teatro di una carneficina che va avanti da più di 4 anni ed oggi rinnovato scenario in cui sembrano delinearsi i nuovi giochi di potere dei principali player internazionali e regionali.
La dilaniata Siria si appresta dunque a divenire il nuovo fronte caldo del Medio Oriente e non solo per la mai sopita, ed anzi rafforzata, presenza nel territorio di Isis, ma anche e soprattutto per le "proiezioni di potere" delle grandi potenze internazionali e regionali. Ad iniziare dalla Russia, legata ad Assad da un'amicizia di vecchia data e partner storico del regime damasceno. La Russia è l'unica potenza straniera ad avere una base militare in Siria.






La città portuale di Tartus, nella costa meridionale, a circa 25 km a nord dal confine tra Siria e Libano, ospita infatti un'installazione navale di approvvigionamento e manutenzione dall'epoca sovietica, nell'ambito di un accordo del 1971 con la Siria, ed è attualmente gestita da personale della marina russa. Si tratta di una posizione decisamente strategica per il disegno imperialista putiniano nel Mediterraneo. Non solo, la Siria oggi sarebbe il terzo cliente della Russia per l'approvvigionamento di armamenti, con circa il 10% dell'export russo destinato a Damasco.
Senza dimenticare che gli interessi russi abbracciano anche il settore energetico - con contratti di lungo periodo siglati con il dittatore siriano per l'esplorazione e lo sfruttamento di riserve di gas naturale - ed il settore delle infrastrutture. Tanto basta per capire come, anche e soprattutto "in tempo di guerra", Putin resti profondamente legato al suo amico Bashar. D'altra parte, il leader maximo del Cremlino non ha mai nascosto di "fornire importanti aiuti militari alla Siria" né in passato, né tantomeno oggi davanti alla necessità di tamponare l'avanzata dello Stato islamico nel territorio.
Ma il discorso sarebbe certo limitante se non includessimo in questa special relationship anche la "riabilitata" Repubblica islamica, attore con un enorme peso specifico nel disegno mediterraneo di Putin. Se fino a qualche tempo fa le relazioni tra la Russia e l'Iran erano necessariamente "clandestine", vista l'impresentabilità del regime di Ahmadinejad, oggi che l'Iran è stato riammesso nel novero degli attori internazionali riconosciuti, dopo l'apertura della trattativa sul nucleare dello scorso luglio, la Russia può giocare a carte scoperte e riaprire all'ambizione di rinvigorire l'asse Mosca-Damasco-Teheran, senza nessuna scaramuccia in ambito Nato, e magari passando proprio sulla via di Damasco.
In questi termini, il sostegno russo ad Assad può essere letto anche nella più ampia strategia del rafforzamento della prospettiva bilaterale con Teheran, attore nevralgico sia nella questione siriana sia, in più ampia prospettiva, nell'attuale risiko strategico mediorientale. Anche in questo caso vi sono importanti interessi economici ed energetici a giustificare il raivvicinamento.
Tanto per citare alcuni esempi: la Russia ha concluso dai primi anni Duemila contratti di miliardi di dollari per la vendita di armamenti all'Iran ed è, ad oggi, il principale fornitore di armi del Paese degli Ayatollah. Nel gennaio di quest'anno, i ministri degli esteri dei due paesi hanno firmato un memorandum d'intesa per rafforzare la "cooperazione militare bilaterale alla luce dei comuni interessi", che tradotto significa nuovi contratti e nuove commesse nel settore degli armamenti. Non solo, nel febbraio 2014, l'Iran ha firmato un accordo da 20 miliardi di dollari con Mosca, per lo scambio di petrolio iraniano con merci e prodotti industriali russi. Tanto basta per comprendere il ruolo "pivotale" dell'Iran nel più ampio prisma comparativo della strategia russa nel quadrante caucasico-mediorientale.
Se la Russia, sembra avere ben chiara la propria strategia, stessa cosa non può dirsi per il fronte occidentale che, come spesso accade, procede in ordine sparso. Da un lato gli Stati Uniti- che cartina alla mano, dinanzi al dilagare dello Stato islamico in territorio siriano devono prendere atto del fallimento della politica di addestramento dei ribelli prima anti Assad e poi anti Isis - sembrano oggi brancolare nel buio; dall'altra gli Stati europei, di nuovo incapaci di pianificare ed attuare una strategia comune, parlano a più voci.
E così la Francia dà il via ai raid aerei, da Londra David Cameron sembra voler partecipare; la Germania, dopo la "svolta buonista" di Angela Merkel sui profughi siriani, sembra tirare il freno a mano sull'intervento militare; mentre il governo italiano, che pure non si è espresso sulla strategia francese contro l'Isis, si è limitato a dichiarare che il nostro Paese è preoccupato delle notizie sull'aumento della presenza russa in Siria a sostegno del regime.
E forse, al di là della solita disorganizzazione europea, il problema è proprio questo: il sostegno russo ad Assad, è qui che si giocano gli equilibri internazionali. Se da un lato, infatti, le intenzioni di Mosca, Washington e dei partner europei sembrano convergere sulla necessità di sconfiggere Daesh, dall'altra sembrano invece incrinarsi in maniera irreversibile sul ruolo futuro di Assad: impresentabile (tanto per usare un eufemismo) per Europa e Stati Uniti, unico soggetto affidabile e dunque da armare e salvaguardare per Mosca.
Le motivazioni che spingono Putin a sostenere a spada tratta l'amico Bashar sono state già chiarite, resta ora da comprendere cosa spinga l'asse occidentale e non prendere in nessuna considerazione la prospettiva russa del sostegno ad Assad. Al di là delle più che condivisibili considerazioni sulla scellerata politica del leader alawita, le motivazioni vanno anche ricercate alla vicinanza di Washington e di alcuni paesi europei alle petrolmonarchie sunnite del Golfo. Non sono certo un segreto gli ingenti investimenti sauditi, o di altri paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo - Qatar in testa - negli Stati Uniti ed in molti partner europei, così come non sono un segreto le ingenti esportazioni europee e americane di armi verso Ryad.
Ora, è evidente come qualunque decisione politica sia fortemente condizionata da interessi economici, e questi al momento convergono verso i paesi del Golfo che, dopo aver chiuso un occhio (ma chissà a quali condizioni) sulla riabilitazione dello storico nemico sciita iraniano, mal tollererebbero di vedere ancora "in vita" il regime alawita di Damasco che, assieme al libano degli Hezbollah e all'Iran rappresenta lo spettro della mezzaluna sciita in Medio Oriente.

È in questo scenario "da guerra fredda" che si delinea il complesso risiko geo-strategico che ruota attorno alla Siria: da un lato la Russia al fianco di Assad e sempre più vicina all'Iran sostiene, in qualche modo, il baluardo sciita; dall'altra gli Stati Uniti, consapevoli della necessità di agire ma condizionati nelle loro scelte strategiche dai petrol-monarchi sunniti. In mezzo l'Europa del minimo comune denominatore, che agisce in ordine sparso tra dichiarazioni di leader confusi e interventi poco organizzati. A fare da sfondo il conflitto nella dilaniata terra siriana che con i suoi drammi, le sue rovine e i suoi morti finisce per sembrare soltanto un epifenomeno marginale della realpolik.

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